Vibra incessante Ifriqiyya Électrique, l’impetuosa confluenza di ritualità adorcistica che sgorga dal deserto tunisino e di rumorismo post-punk, elaborazione dell’agitatore sonico francese François Régis Cambuzat – uno persuaso che la musica sia emozione, rischio, ribellione, ferocia, slancio e trascendenza – e della salentina Gianna Greco, cofondatrice del Putan Club, iperattiva cellula del militantismo musicale internazionale. Prima ancora, negli anni ’80, François era stato l’artefice di The Kim Squad e del collettivo avant-folk Il Gran Teatro Amaro. Ancora, era stato la mente di L’Enfant Rouge e dato vita al progetto Putan Club. Proprio da quest’ultimo, scaturisce la scintilla che alimenta il collettivo Ifriqiyya Électrique, di cui sono imprescindibili co-protagonisti i maestri musicisti dei rituali Banga tunisini. “Rûwâhîne” (Glitterbeat, 2017) è il primo esito di questa vicinanza, in cui si impattano l’intensità visonaria e fisica delle distorsioni chitarristiche ed elettroniche, la pienezza del basso e l’iteratività ossesiva di tamburi e canto call & response della cerimonialità nord-africana. Adesso, è la volta di ˝Laylet el Booree˝ (2019), secondo capitolo discografico e formidabile esperienza live multimediale, realizzato con Yahia Chouchen, Tarek Soltan e Fatma Chebbi, maestri tunisini della pratica musicale e terapeutica nell’oasi tunisina di Djerid. L’incisività sonica de ˝La Notte della Follia˝ è il nostro BF-Choice del mese di maggio. Lo stesso François R. Cambuzat, raggiunto durante le tappe del tour europeo, racconta i lavori sulle musiche di elevazione e il concepimento dell’adoricismo musicale post-indutriale che va sotto il nome di Ifriqiyya Électrique.
François, riavvolgiamo il nastro, tutto ha avuto inizio con un viaggio nello Xinjang uiguro. Cosa è accaduto?
Nel 2012, durante un tour nella Mongolia interna, un amico musicista, figlio di bardo kazako, mi diceva che nello Xinjiang lo sciamanesimo era rimasto puro, perché proibito dalle autorità cinesi. Di ritorno in Europa, quelle parole mi eccheggiavano ancora nella testa. Mi ero sempre chiesto cosa mi facesse vivere la musica, perché dai miei primi concerti, intorno ai dodici anni, l’essere sul palco mi portava sempre altrove, facendo scomparire la depressione come scompare un mal di denti.
Che tipo di attrezzatura hai utilizzato sul campo?
Dovevo viaggiare leggero perché ero solo. Il primo viaggio nello Xinjiang era in inverno, con una media di -25°C. Tecnicamente, mi sono reso conto che una telecamera bloccava, perché tutti si sarebbero sentiti osservati, rischiando di rifiutarsi o, peggio, di caderenella teatralità. Ho preso un telefonino con una qualità video ottimale: un Sony Xperia. Per l’audio, ho usato uno Zoom, sapendo che il lavoro di post-produzione poi sarebbe stato enorme. Per il montaggio abbiamo chiesto aiuto a un algtro salentino, Carlo Mazzotta, anche ottimo musicista di avanguardia, consapevole dei cambiamenti e del linguaggio musicale, dei rischi artistici che si devono prendere. Arrangiamenti, missaggio e post-produzione sono stati realizzati con “Ableton Live”, che è molto leggero e di qualità sufficiente, che mi ha anche permesso di lavorare, far ascoltare e giudicare i risultati in situ dai musicisti del Taklamakan. Questo per lavorare insieme fino al risultato finale. Se un trombone, un drone distorto o un ritmo strano aggiunto non piacevano, potevo rielaborare immediatamente, senza dover rifare 24.000 chilometri, ma soprattutto integrandomi sempre di più nella musica contemplata. Fondamentalmente, per tutte le realizzazioni della Trans-Aeolian Transmission (il nome generico scelto per questi lavori sulle musiche di elevazione) è questo set-up che prevale ancora oggi e che ci permette di andare ovunque. Gianna Greco era nell’avventura: una lavoratrice propositiva, capace di morire di fame o di freddo come di trascorrere ore al booking, sempre creativa, in un modo sorprendente e sempre ottimista.
Che esperienze musicali avete fatto?
Abbiamo incontrato sciamani, per lo più donne, e capito le loro paure del governo cinese, siamo andati allora ad incontrare i Dolans, la loro musica quasi atonale, fatta di frizioni, urli, strappi, tempi liberi, crescendi di velocità e densità, un po’ come se stessero suonando free jazz, se non speed-trash-metal a un volume parossistico. Le prime sessioni di registrazione si sono svolte nelle case dei villaggi, ma spesso nel deserto stesso, dopo lunghe transumanze di macchine, poi a piedi, strumenti, acqua e tappeti inclusi, quando i musicisti capivano che l’ispirazione, la follia, eranno questa volta bloccati da quattro mura. Fino alla notte oscura, la musica trascendeva una piccola porzione di deserto, al riparo da enormi dune. Il dotâr, il violino ghijek, il kanûn e il rawap dolan, seguivano le melodie dei cantanti utilizzando un tamburo a cornice che veniva occasionalmente posto davanti alla bocca per dare un effetto smorzato e distanziante. Perché tutto diventava vera pazzia. Come essere così arroganti da poter pensare di abbracciare una regione grande sei volte l’Italia? Gianna e io urlavamo di felicità, spostandoci sui confini afgani o tagiki, montagne di oltre 5.000 metri di altezza, accampamenti di fortuna, notti in yurta nel Kirghizistan su laghi d’acciaio blu, per scendere poi dal KKH, Karakoram Highway, per incrocciare l’esercito cinese che saliva, proseguire per il meshrep del giovedì a Yarkand, poi verso Makit per ritrovare i Dolans, le melodie, ritmi, stridi, motori, canzoni, immagini, colori. Incisi negli occhi, nelle orecchie, nella mente, per sempre. A causa della proibizione del governo cinese di praticarlo e delle condanne che ne derivano, per lo sciamano come per la sua famiglia, gli officianti che avevamo conosciuti temevano anche per la loro vita. Potevamo incontrarli, registrarli a malapena, assolutamente non filmarli. Ma l’incontro con il deserto dei Dolans ci aveva confortati e sarebbero stati i nostri principali partner, nei prossimi mesi che avremmo passato ancora di seguito nello Xinjiang con Gianna Greco. Infine, era impossibile portare i nostri amici uiguri in Europa. Non sono autorizzati a viaggiare e spesso sono designati come terroristi. Il progetto è stato suonato dal vivo, la première a Dushanbe, in Tagikistan, poi ha partecipato a vari festival in Occidente, nel formato cine-documentario-road movie-poesia-concerto, in duo.
Invece, quando e come siete arrivati nel Djerid tunisino?
Ho una lunga relazione d’affetto con questo Paese. La mia famiglia adottiva è a Tourbet el Bey. È uno dei pochissimi posti al mondo in cui sto bene. Niente auto, una popolazione colta, femminismo militante, una medina di bellezza mozzafiato. Inoltre, i tunisini hanno fatto una rivoluzione, loro. Conoscevo lo stambeli, il rituale musicale-terapeutico impiantato in Tunisia da popolazioni provenienti dall’Africa sub-sahariana, che mischiavano musica, danze e canzoni durante le quali alcuni partecipanti entravano in trance e incarnavano entità soprannaturali.
Che differenze con l’esperienza nello Xinjiang ?
Rispetto alla musica dello Xinjiang, questa volta eravamo più liberi, perché la Banga suona senza strumenti melodici, eravamo dunque in quasi totale libertà di composizione armonica. Abbiamo registrato quella volta in un multi-tracking primario: una traccia testimone tutti insieme, poi ognuno in ri-registrazione. L’enorme lavoro era quindi far comunicare il computer con la Banga. Poi sono passate ore, settimane, mesi, curvati sui schermi mettendo milioni di warps (punti di ancoraggio sulla time-line) per definire le misure e rispettare i tempi, le accelerazioni, stop & go, essere identici al materiale originale ed infine riorganizzare tutto. Non è stata cambiata né una nota né un tempo, seguendo esattamente i tre momenti del rituale: chiamata alla popolazione, chiamata agli spiriti e possessione finale. La temperatura era di 45° C, i computer rallentavano, si fermavano, tanto che abbiamo pensato tornare a Tunisi per comprarne uno nuovo.
È soprattutto l’elemento sociale, aggregativo che ci interessava, il fatto che questa musica sia davvero al servizio della comunità, con una vera funzione sociale. Il lato terapeutico è il suo scopo, ma ciò che ci interessava erano i “perché” e i “come”. Detto questo, nessuno è stupido nel deserto: tutti sanno che per un appendicite devi andare all’ospedale.
È già saltato fuori che una delle contraddizioni della world music è la fruizione esotica occidentale e che questo problema te lo sei posto das subito nel momento in cui una collaborazione musicale si trasformava in un concerto e in una produzione per festival…
Come ho detto prima, questa era una ricerca personale e non doveva diventare una band perché pensavamo che il denaro avrebbe fatto marcire la Banga e che la luce dei media avrebbe potuto trasformarli in un’attrazione turistica. Quando arrivarono le prime proposte di concerti, ne abbiamo avuto paura. Eravamo convinti che il denaro avrebbe rovinato tutto. Ed è esattamente quello che è successo dopo. Su insistenza dei nostri musicisti di Tozeur, abbiamo accettato la sfida, a condizione di parlare il più possibile, di dedicare del tempo a spiegare tutto, dalle strategie di gruppo ai bilanci economici. È stata chiesta una sola condizione: tutti i membri del gruppo dovevano imparare l’inglese, per comunicare con giornalisti, tecnici e agenzie. Gianna ed io non volevamo rappresentare unilateralmente l’Ifriqiyya Électrique. Il nostro sogno era allora creare una rete di lavoro e un modo per comporre/organizzare, quindi passare questa tecnica ai nostri amici tunisini, e infine a lungo termine andarsene dal gruppo lasciandogli una macchina funzionante. Incomprensibilmente, le relazioni si sono guastate nel maggio 2018, prima di tutto con Youssef. Il mio migliore amico, il mio compagno di Jerid, cominciò a spendere immediatamente tutto il suo denaro, trovandosi continuamente senza soldi, nonostante cachet, visti, viaggi e alloggi pagati. Youssef cominciò a rubare, insultare e poi minacciare di morte, esercitando un ricatto continuo con tutti. Youssef è stato tenuto nel gruppo fino all’impossibile, poi sostituito da Fatma Chebbi nel settembre 2018. Fatma è stata scelta da suo zio, Yahya Chouchen. Eravamo felici che un’altra donna si unisse a noi. Inoltre, Fatma parlava bene il francese e l’inglese e studiava contabilità, il che rendeva perfetta la comunicazione. Ma i problemi ricominciarono .... Perché alla fine avevamo torto e lo sapevamo: il denaro avrebbe fatto marcire l’umanità.
Come si è indirizzato il vostro lavoro di ricerca e di registrazione sul campo, anche in relazione ai rapporti con i musicisti locali?
Le ricerche sono sempre state iniziate da imponente letture di libri di etno-musicologia, di studi per mesi, se non anni, prima di fare il primo viaggio. Il modo di registrare è sempre rimasto lo stesso: prime registrazioni eseguite sul campo (field-recordings), seguite, quando è stato possibile, da un sommario multi-tracking, quindi un’enorme sessione di warping con Abbleton Live per ‘gelare’ le strutture e la time-line per non cambiare assolutamente nulla (regola primordiale) e perche il computer possa comunicare, quindi finalmente scrivere arrangiamenti elettrici sul terreno, discutandoli con i musicisti, provandoli e, eventualmente, cambiarli rapidamente. Le prime prove nel deserto furono incredibili. Avevamo comprato un piccolo impianto ultra-potente, ma i tre musicisti coprivano tutto, in un volume mostruoso. Un gruppo come Meshuggah sembravano chierichetti. Pura felicità…
Ci puoi raccontare come si è evoluto, in questi anni, il vostro approccio agli arrangiamenti dei brani ed in particolare il dialogo tra gli strumenti elettrici e quelli tradizionali?
Non c’è stata une reale evoluzione nel modo in cui collaboriamo: abbiamo sempre voluto iniziare dal materiale originale. Per un momento, siamo rimasti sorpresi dal ‘successo’ del primo album “Rûwâhîne”, questo ci ha messo in discussione.
L’elemento visuale e documentaristico è parte integrante del progetto… Come si coniugano immagini e ritmo nel vostro live act?
Mi sono sempre sentito frustrato nei concerti etno/world: ascoltando un artista meraviglioso che viene da l’altra parte del mondo, ho sempre voluto sapere di più, conoscere la sua vita, il suo habitat, la sua famiglia, ecc ... Le proiezioni in concerto sono quindi per compensare per quella frustrazione. Tecnicamente parlando, in concerto le immagini vengono sincronizzate con i beats del computer grazie ad Abbleton Live. È di una facilità sconcertante.
Cosa racchiude il titolo del secondo lavoro, “Laylet el Booree”, che significa “La Notte della Follia”?
“Laylet el Booree” è l’ultima parte del raduno annuale della Banga (all’infuori dei rituali che si svolgono tutto l’anno). È l’ultima notte, quando gli spiriti sono invitati, quando si impossessano dei corpi. Questo è ovviamente un momento speciale, aperto a tutti.
In questo flusso sonoro, come nasce e viene selezionato per la scaletta del disco?
Come per “Rûwâhîne”, la sequenza dell’album “Laylet el Booree” è esattamente la sequenza delle registrazioni decisa dai nostri amici di Tozeur. Perché questa sequenza ha certamente un significato per la Banga. Alcune canzoni non possono essere eseguite prima di altre.
Hai già fatto qualche nome, ci presenti i musicisti/maestri della comunità tunisina che suonano con voi?
Fatma Chebbi è l’avanguardia della comunità della Banga, la nuova ondata. Orgogliosa dei suoi diritti, libera e laureata, Fatma incarna una sicura evoluzione del Banga. Fatma controlla il buon sviluppo dei rituali, colei che si prende cura dei posseduti, che fa attenzione a che i bambini non si feriscano, che blocca le macchine quando il rituale si svolge nelle strade... È anche il tempo metronomico, sicuro e implacabile dei tchektchekas (percussioni metalliche). Yahia Chouchen è il detonatore della Banga. Adorato dalla comunità del deserto per la sua estroversione, la sua empatia e il suo dono innato per trascendere l’assemblea, è il primo a partire, a librarsi, trascinando l’universo intero, impossessandosi della conduzione del rituale quando il ritmo rallenta, ripassandola, volteggiando per lasciarsi cadere e balzare, e questo per ore ed ore. Yahia Chouchen è l’anima solare della Banga, il sorriso sulle labbra, la testa allo zenit, il diletto. Tarek Sultan è lo sciamano, il mistico, l’illuminato. Vicino al Muqqadem (maestro) della Banga di Tozeur, è sicuramente il prossimo depositario del patrimonio musicale della comunità. Tarek Sultan anche il rigoroso costruttore di tamburi tabla e dei crotali tchektchekas. Durante i rituali, Tarek è uno dei conduttori principali, colui che lancia i canti, le danze e i ritmi agli spiriti. In trance, l’ajmi (l’antica lingua subsahariana hausa) esce dalla sua bocca spontaneamente. Tarek Sultan è la voce calda, possente e roca della Banga.
Abbiamo passato molto tempo in Kurdistan, Dersim, per imparare dagli Alevi. Meno musica trance – odio quella parola – ma elegie lunghe e tristi. Ancora una volta, è il ruolo sociale, ma ancor più la vita Alevi che ci ha sfidato. In Dersim l’alevismo non è una religione ma un “percorso”, l’uguaglianza tra la donna e l’uomo è una realtà, l’educazione e il gli studi sono un dovere, così come il rispetto totale per la natura è una regola. L’amore per il genere umano è l’essenza dell’Alevismo. La vera Kaaba è il cuore dell’uomo. «Qualunque cosa tu cerchi, cercalo in te, non è a Gerusalemme, né alla Mecca, né nel pellegrinaggio», dice Hacı Bektaş Veli. L’alevismo è classificato nelle tradizioni sufi e le sue convinzioni sono paragonabili al panentismo. Se dice degli alevi discendenti dal mazdeismo, dello zoroastrismo. Convinti dal secolarismo, dalla laicità, si oppongono a qualsiasi intrusione di potere temporale (politico) nella sfera spirituale (o atemporale) e viceversa. L’organizzazione è più orizzontale che verticale, il senso della comunità umana è primordiale. Gli alevi si sentono molto vicini al comunismo se non all’anarchismo. Con l’isolamento geograficamente dovuto alle montagne Munzur Dağlari quasi impenetrabili e l’enorme braccio d’acqua del Keban Baraji, le tradizioni sembravano essere protette e preservate. Sul piano politico, un’immagine persistente associa il Dersim al dissenso, alla resistenza, alla rivolta. La protesta secolare della regione del Dersim, la sua autonomia nei confronti delle potenze centrali, hanno permeato durevolmente l’immagine e l’identità della regione. Il 16 aprile 2017, il Dersim ha massivamente scelto “Hayır/No”, votato a Ovacık al 95%. Perché l’apertura, l’umanesimo e il sentimento egualitario dell’alevismo spingono naturalmente i suoi seguaci verso il socialismo. L’alevismo non è una religione: è una via, una credenza. Queste due affermazioni sono il leimotiv che Pirs, Dede e gente per strada lanciano dopo ogni prima domanda. Le donne non indossano il velo, nessuno sta digiunando per Ramadan e nessuna va alla moschea. Un sincretismo gnostico di zoroastrismo, sciamanismo e Islam che sottolinea la crescita spirituale interiore piuttosto che l’apparenza esteriore della fede e considera la natura come santa. Il Dersim è spesso considerato la culla dell’alevismo (kızılbaşism). Insistendo sulla specificità dell’alevismo del Dersim, enfatizzando ulteriormente la natura eteroclita dei rituali, l’assenza di dogmi e l’importanza della natura all’interno del suo sistema di credenze, alcune ricerche concludono che l’alevismo del Dersim è più eterodosso e più sincretico delle sue varianti esistenti sul suolo anatolico. Questo particolarismo è rivendicato da molti abitanti del Dersim, che non si identificano quindi con l’alivismo in generale, ma con l’alevismo del Dersim. Un alevismo profondamente pacifico, per il quale il rispetto per la natura li identificava come ‘ecologisti naturali’.
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Il Ndoep senegalese è un desiderio remoto che abbiamo trasferito intorno al 2023 : non ridere, il tempo è gravemente carente. Sono in corso diversi progetti, ma la prossima destinazione è il Pamir, al confine con l’Afghanistan. Tutto ciò richiede tempo, organizzazione, conoscenza e denaro. Ne mettiamo da parte ogni giorno per sognare seriamente tutto questo. Una delle prime sessioni di registrazione tajike è visibile qui.
Ci saranno sviluppi discografici o concerti derivanti da queste due esperienze d’incontro?
Mai più. Li terremo il più nascosto possibile, in modo da non ripetere l’esperienza occidentale dell’Ifriqiyya Électrique. Solo i film saranno disponibili su Internet.
Ciro De Rosa
Ifriqiyya Électrique - Laylet el Booree (Glitterbeat, 2019)

Alessio Surian
Foto Copyright Renaud de Foville
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